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L’agiografo Nilo.
Conosciamo il nome dell'agiografo, Nilo. Egli imposta la sua operetta, utile per l'edificazione dell'uditorio e dei lettori, in una dimensione raccolta, intessuta di imprese interiori, che tuttavia non riuscirono ad impedire la diffusione della notorietà del santo. Una simile impostazione, ma più accentuata, è scelta anche dall'agiografo di san Filareto, che visse nella stessa età di san Nicodemo e nei luoghi in cui questi era nato; anche questo agiografo si chiama Nilo, e potrebbe trattarsi dello stesso autore!

Nicodemo nacque verso la metà del secolo X a Sicrò, una cittadina delle Saline (oggi Piana di Gioia Tauro), cioè di quel territorio monastico che era stato reso celebre dalle fondazioni di sant'Elia il Giovane e di sant'Elia lo Speleota; la sua vita terrena, dice l’agiografo, durò circa settant'anni. I suoi genitori, come di consueto, erano molto pii e lo educarono alla vita di fede; ma il giovinetto non si accontentò della buona educazione morale e intellettuale per cui primeggiava fra i coetanei, e scelse la via della perfezione, fra i monti e le spelonche. Sia la notorietà delle virtù umane, sia la precoce scelta monastica sono elementi alquanto consueti nelle biografie dei nostri santi asceti: essi, nell'operetta di Nilo, sembrano il preludio di quella via verso l'interiorizzazione alla quale ho accennato.
L'occasione per un deciso e definitivo distacco dai luoghi di grande frequentazione umana, come erano e sono tuttora le Saline, venne offerta da un'incursione dei Saraceni. Altre due volte si parla nella vita di san Nicodemo di questo popolo multiforme e aggressivo, per sottolineare le virtù taumaturgiche del santo. Nicodemo, dunque, si trovava nel celebre monastero di san Fantino di Taureana, affidato alle cure spirituali di un anziano monaco, quando pervenne un'irruzione saracena, che il giovane interpretò come invito a ricercare la pace fisica e interiore nelle solitudini montane. Risalì il versante della montagna fino allo spartiacque e lì, presso il passo della Limina, ancora oggi ben noto, nella località di Kellerana, di non facile identificazione, si fermò definitivamente.
Ascesi montana. Quando, con la sua ascesi e la preghiera, ebbe purificato il deserto montano dagli spiriti maligni, intitolò la sua dimora eremitica in onore dell'arcangelo san Michele, anche se poi, come succede frequentemente, quel luogo sacro prese il nome del suo fondatore. L'agiografo racconta un episodio significativo delle scelte del santo: i discepoli, che a poco a poco erano accorsi a condividere l'austera solitudine di Nicodemo, un giorno gli chiesero di spostare la dimora più in basso, in una località più frequentata. Nicodemo non disse di no e propose loro di scendere a provare come si vive accanto alla gente. Egli scelse appositamente un giorno di grande affluenza, quello della Dormizione della Vergine, il 15 agosto; ed un luogo particolarmente affollato, il tempio di santa Maria di Vukiti, che si ritiene sorgesse presso l'attuale Martone, a monte di Gioiosa Jonica, nel versante contrapposto a quello delle Saline. I monaci rimasero così sgomenti per il popoloso chiasso, che, buttatisi ai piedi del santo, gli chiesero il perdono ed il tempestivo ritorno sui monti.
Nicodemo trascorreva il giorno fra il canto liturgico ed il lavoro con la zappa. Confezionava anche il pane che, come gli ortaggi, destinava ai suoi discepoli, dal momento che il suo unico alimento era un decotto di castagne che beveva la sera. Se gli portavano del pesce dalla marina, egli accettava il dono dei pescatori, ma lasciava che quel cibo si disseccasse al sole, così che perdesse l'attrattiva del gusto. Quando riteneva opportuno di rendere ancora più severa la sua ascesi, egli si chiamava per nome e si ammoniva, come se fosse un altro uomo: in tal modo si estraniava da se stesso per amore di Dio. Parlava anche con le bestie, come quando invitò una cerbiatta a non devastare l'orto dei monaci, prevedendo per essa una brutta fine, nella quale si imbatté la bestiola disubbidiente; o quando rimproverò e mandò via in pace uno scorpione che gli si era attaccato al braccio senza fargli male. Ma soprattutto parlava con la gente, per confortarla e consolarla. Raccoglieva offerte per il riscatto dei prigionieri e le donava ai loro parenti. Anche i suoi miracoli erano densi di semplice carità: guariva gli infermi e liberava gli ossessi. Talvolta, per ottenere questo, pregava a lungo, anche tutta la notte, e sempre, come era sua consuetudine, con molte lacrime; altre volte, invece, bastava che mostrasse e facesse vibrare il suo bastone, il quale era divenuto il terrore dei diavoli.
Il signorotto. Lasciava raramente il monastero. Una volta lo lasciò volentieri, anche se era il giorno del Grande Sabato, per una missione rischiosa e difficile: rendere giustizia ad un poveretto contro la prepotenza di un arconte, cioè di un benestante riverito e influente. L'episodio è simile a quello manzoniano di Padre Cristoforo nella casa di don Rodrigo. L'arconte, che si era invaghito della moglie di quel poveretto, l'aveva di forza sottratta al marito e se l'era portata in casa. Nicodemo, informato e supplicato dal marito, accorse presso il nobile prepotente chiedendogli l'immediata liberazione della donna; ricevette, invece, una risposta sprezzante: «Se non mi trattenesse quel poco di rispetto che ho per te, oggi ti beccheresti una scarica di improperi. Tornatene alla tua cella». Ma più terribile, e naturalmente efficace, fu la conclusione del santo: «Non aggiungo nemmeno una parola. Se il Signore mi considera fra i suoi cari, ti tratterà come vorrà lui» (cap. 16). Il giorno dopo, al mattino della Domenica di Pasqua, l'arconte morì improvvisamente appena sceso dal letto. Un'altra volta era stato portato via da una banda di Saraceni, che, fra l'altro, si divertivano a deriderlo per la sua costante preghiera; ma poco appresso quei violenti si misero a combattere furiosamente fra di loro lasciando che il santo tornasse liberamente al monastero. E a nove cittadini di Bisignano, che erano stati rapiti dai Saraceni e trascinati fra i monti alla volta della Sicilia, bastò l'invocazione del suo nome per liberarsi dalle catene: era dunque ben nota ed efficace la fama di quel santo nascosto e silenzioso.
Una volta era sceso nelle Saline per pregare presso la tomba di sant'Elia lo Speleota e tutti i monaci, riconosciutolo, accorsero per riverirlo; in quella occasione il prete Leonas venne guarito da gravi tormenti diabolici al semplice tocco della mano di Nicodemo. La sua venerazione verso Elia il Giovane ed Elia lo Speleota si esprimeva anche con cortesie taumaturgiche, come quando egli invitò inutilmente i genitori di una giovinetta tormentata dal diavolo a supplicare quei due grandi santi, venerando le loro reliquie per ottenerne la guarigione della ragazza. Lo stesso aveva fatto per un giovanotto ossesso, ai cui genitori Nicodemo, prima di scacciare il diavolo, aveva detto: «Portatelo alla Spelonca, da Elia» (cap. 13); una cortesia simile usò Elia il Giovane per san Filareto.
La memoria liturgica di san Nicodemo ricorre il 12 marzo.
La sua venerazione si è tramandata ininterrotta fino ad oggi, specialmente a Mammola, che è il centro urbano più vicino ai luoghi dove Nicodemo aveva impiantato il suo monastero e dove poi venne trasferita la fondazione monastica: infatti Atanasio Calceopulo, che visitò il monastero di san Nicodemo il 7 novembre 1457, dice che esso era ubicato a meno di un miglio dalle case di Mammola. Nicodemo è assai venerato anche a Cirò, che per un pio errore fu ritenuta a lungo la patria del santo. La sua vita venne anche narrata nel secolo XVII da Apollinare Agresta, che era nativo di Mammola e nell'anno 1675 venne designato Abate Generale dell'Ordine Basiliano. La vita del suo monastero produsse atti, di cui un piccolo nucleo fra gli anni 1011 e 1232 è giunto fino a noi ed è stato pubblicato da André Guillou. In essi è menzionato anche un monastero in onore di san Fantino, detto di Pretoriate (probabilmente località e/o torrente nel territorio di Gioiosa Jonica) e che richiama nel titolo il luogo sacro della formazione monastica di Nicodemo. Anche se non è definita l'identificazione della località Kellerana, oggi si ritiene che essa coincida con il luogo dove furono rinvenute le absidi antiche di un edifìcio di culto che è stato recentemente riedificato e che nell'opinione generale corrisponde al monastero di san Nicodemo, così come una vicina grotticella è comunemente venerata come la grotta del santo. In questo luogo sacro presso il passo della Limina risiede da alcuni anni un eremita certosino, padre Ernesto, che si è insediato il 17 settembre 1995 ed ha professato solennemente la sua scelta eremitica, alla presenza del vescovo di Locri-Gerace mons. Giancarlo Bregantini, l'11 luglio dell'anno 2000.

(D. MINUTO, Profili di santi nella Calabria bizantina, Reggio Calabria 2002, pp.69-72)

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