Condividi

Attraverso la molla creativa ha vinto la solitudine di un disagio fisico. La sua arte è nota e apprezzata più all'estero che in Italia. Ciononostante, lui è tornato a casa, in Calabria, per dare vita al MuSaBa, un progetto innovativo di arte a cielo aperto.



























                                                                                                                                                                    Chi percorre la nuova strada Ionio - Tirreno, nel tratto sopraelevato sul greto ampio del torrente Torbido, tra Gioiosa e Mammola, in Calabria, non può non vedere, non rallentare, stupito e affascinato dai misteriosi giganti che popolano i sette ettari del Parco Museo Laboratorio Santa Barbara, una “invenzione” dell’artista Nik Spatari che, oltre a esporre le sue monumentali opere, ospita artisti di tutto il mondo, che progettano e realizzano per il MuSaBa una loro opera. A svettare su tutte, L’ombra della sera, un’opera in lamine di corten, alta quindici metri e che pare camminare a lunhi passi nel chiostro della foresteria MuSaBaArtHotel.
 In alto, sul promontorio che ospita i resti dell’antico complesso monastico certosino risalente al IV secolo, domina invece il totemico Concetto universale in calcestruzzo dipinto, alto dieci metri. Vicino a una fontana poi si stende, molle e sensuale, una gigantessa in costume da mare (realizzata dall’artista americana Stephany Kerwin), alta tre metri, e Il Mondo spaccato in due emisferi e ricoperto dalle tessere di un lucido mosaico in ceramica, del taiwanese Jin Jong.Di Nik Spatari, il sognatore che sente il suono vibrante dei colori, oltre a L’ombra della sera e c’è anche il coloratissimo Sabalizard, un lucertolone che richiama il tempo dei dinosauri, costruito con tecniche miste – ferro, vetro, ceramica, legno – e coperto di mosaico. Tra piante di fichi, arance, ulivi, cipressi e fichi d’India, si alzano piramidi, zampillano fontane e posano come dimenticati dal tempo totem preistorici e forme avveniristiche come la gigantesca farfalla con le grandi ali fatte di fondi di bottiglie di vetro colorato o L’uomo-donna, ambedue in calcestruzzo.
Ma l’opera più suggestiva e misteriosa, quella che da sola vale un museo, è l’ex chiesa di Santa Barbara, in cima alla collina. Gli spazi museali, abitati da sagome inquietanti e misteriose, sono nella penombra per far risaltare le vetrate di colori puri che al tramonto si riempiono di luci fosforescenti. Sulle pareti laterali si scoprono i Bronzi di Riace e Tommaso Campanella, il monaco utopista della Città del sole nato nella vicina Stilo; si vedono lungo le pareti tante tele e tavole dei periodi pittorici che Nik ha attraversato negli anni della sua giovinezza: Dinamismo concettuale, espressivo, mistico; Dinamismo geometrico, prismatico, strutturale e informale. È il periodo della ricerca appassionata e feconda quando espone a Losanna, Zurigo, Ginevra, negli anni che vanno dal ’56 al ’70 e frequenta Guttuso, Argan, Apollonio, Carlo Levi, Max Ernst, Jean Cocteau. L’opera tridimensionale nella chiesetta, Il sogno di Giacobbe, si estende per 240 metri quadrati. Alzati gli occhi per guardare la volta, si resta stregati da questo popolo di corpi nudi e innocenti, dalle storie che vivono un fuori tempo sincronico e successivo in 16 vele legate a un unico protagonista, Giacobbe. L’opera contiene un parallelismo autobiografico dell’artista «cittadino», come si definisce con benevola civetteria, «del mondo e della storia con interessi nella storia e un po’ nell’Aldilà».

Ma chi è Nik Spatari? Si direbbe un gigante buono perso in un suo sogno d’arte, come Alice nel Paese delle meraviglie.
È più conosciuto all’estero che in Italia, e meno ancora in Calabria di cui dovrebbe essere l’orgoglio del secolo. Da piccolo, Nicodemo fu aggredito da una malattia dell’udito e, complice un bombardamento anglo-americano durante la Seconda guerra mondiale, fu isolato nella più tragica sordità, con la perdita anche di una corretta pronuncia verbale. Lontano dagli altri ragazzi, visse un’infanzia introversa costruendosi con i colori un suo mondo “altro”, ove riusciva a emergere, a essere sé stesso coltivando sogni e sentimenti universali. «Ascoltavo i colori», dirà in seguito, e l’arcobaleno gli suonava davanti agli occhi una scala musicale. Cominciò a dipingere da autodidatta fiori e farfalle, barche viste a mare, isole e pescatori. Di quel primo periodo restano alcuni ritratti: una Messa a Mammola, un Carnevale in paese, Anna e nonna Lucrezia, un Cristo in croce che richiama quelli gialli di Gauguin e la bellissima processione La Vara di Reggio Calabria.

La sua prima mostra personale, nel 1955 al Museo nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria, fu visitata da Eugenio Montale che la recensì per il Corriere della Sera con toni elogiativi e vivo entusiasmo. In un’intervista Nik dirà in seguito che aveva esposto 200 opere e che, dopo quella recensione, ne vendette quasi cento. “Sdoganato” al Nord, espone a Roma, alla Biennale di Venezia, a Losanna, a Zurigo, a Ginevra e, nel 1957, a Parigi, dove conosce Jean Cocteau, Picasso e frequenta Le Corbusier. Mentre è a Parigi sposa un’aristocratica russa, da cui divorzia quasi subito. In una mostra personale nella prestigiosa Galleria Cigaps incontra l’energica Hiske Maas, un’artista olandese di grande sensibilità e senso pratico. Sarà la donna della sua vita: «La bussola, la consigliera, la manager, la stella del mattino», come mi dice Nik sorridendo, quando lo incontro. Questo sentimento e questa vita di coppia felice e fruttuosa è raccontata in un grande pannello del 2001, intitolato Il mito, che è esposto al MuSaBa, l’originalissimo parco museo, scuola di arte-architettura che la coppia insieme ha costruito. Innumerevoli sono i premi che Nik ha ricevuto nel corso degli anni: a Londra, Amsterdam, Stoccolma, Barcellona, Parigi, Ginevra, Copenaghen, Bruxelles, Monaco di Baviera, Zurigo, Bilbao, Zagabria, Mosca, Roma e Venezia. È presente con sue opere in decine di chiese: Pentecoste nella cattedrale di Locri, al Santuario di Polsi e alla chiesa del Monte a Catanzaro, a Roma con Madonna del mare e Discorso della Montagna, a Mammola nella chiesa Matrice con Vita di santa Caterina. Affreschi, murale e dipinti a olio per la chiesa di Saint Jean-Baptiste a Parigi, ecc. E sono tante le tecniche usate dall’artista, tante le sperimentazioni e tale l’adesione totale all’arte, che Nik Spatari meriterebbe di avere una sua università della comunicazione, un’accademia per tramandare alle giovani generazioni il bello come progetto ed eredità.

Quando ti sei scontrato-incontrato con la Bibbia? Da bambino o già adulto?
«L’interesse biblico mi venne fanciullo, intorno ai 9-10 anni. Era l’epoca della Seconda guerra mondiale, i bombardamenti alleati imperversavano sul Reggino, mamma era abbonata a Famiglia Cristiana e io mi dilettavo ad ammirare e leggere, nella seconda e penultima pagina, la Bibbia illustrata da Gustavo Doré. Non avevo altro passatempo in mezzo a questo spaventoso conflitto. Avevo un’innata visione della natura: mamma ricordava che già all’età di 3-4 anni disegnavo fiori e farfalle dei campi vicini e i natanti del porto visti dall’alto della nostra casa a Reggio Calabria. Prima dello scoppio della guerra, vinsi all’età di 7-8 anni due primi premi di disegno e il tanto prestigioso premio internazionale sull’alleanza italo-germano-nipponica. Avevo disegnato un orso bianco in fuga, suggeritomi da papà, inseguito dalle tre bandiere dell’Alleanza su uno scenario boschivo innevato. Credo al caso, ma anche alla forza dell’ingenuità e mi sento di essere stato profeta: l’orso russo non fu mai raggiunto. La notizia della premiazione fu diffusa via radio, tanto che le scuole reggine vennero a farmi festa. Venne riportata anche dal Corriere della Sera e dal Corriere dei Piccoli. Già stavo perdendo l’udito e la favella dopo il pauroso bombardamento aereo su Reggio e non potei continuare le scuole. Papà, maestro delle elementari e ufficiale dell’Arma dei Carabinieri, mi fu di prezioso aiuto. Egli partecipò agli storici fatti di Fiume al fianco di D’Annunzio e, comprendendo il mio stato d’animo, mi procurò volumi d’arte e libri d’avventura, più un abbonamento a Il Giornalino. Vinsi altri numerosi premi di disegni e di pittura e il premio letterario indetto dal settimanale cattolico Il Vittorioso sulle “Sette Meraviglie del Mondo”».

La lotta con l’Angelo-Dio continua ancora oggi? E fino a quando durerà questa notte?
«Se si riferisce all’abside e alla volta della mia cappella tridimensionale, la lotta di Giacobbe con Dio continua. Certamente la lotta è stata il mio leitmotiv tra tante negazioni e vittorie, privazioni, sofferenze e gioie. Giacobbe è anche il ritratto di me stesso. Anch’io fuggii dalla mia terra natia, perché non vi trovavo simpatia e comprensione, malgrado i miei giovanili successi. Nelle scene dello sposalizio, la prima moglie del patriarca, Lia, è la mia ex moglie russa, Rachele, mentre la seconda è Hiske: la mia modella, critica d’arte e compagna di vita. Io ho fatto fortuna ma in un’altra patria, tra gente che non conoscevo. Come Giacobbe fu toccato nel nervo e portò per tutta la vita quel “segno” distintivo, anch’io ho perso l’udito e anche un po’ la parola. Mi è rimasta l’arte per esprimermi, i colori come dono di grazia».

Qual è il messaggio più vero e più intimo della tua “Sistina”? Quando hai incontrato Michelangelo e la sua arte, «bella da incubo»?
«Avvenne nei ruggenti anni ’50, a un raduno dei baschi verdi dell’Azione cattolica per un’udienza con Pio XII. Disertai le manifestazioni e mi intrufolai negli spazi dei Musei Vaticani. L’impressione che ebbi di tutta la volta biblica della Cappella Sistina si stampò nel mio cervello come un’immagine fotografica. Una volta rientrato a casa, disegnai tutto quanto avevo visto, mandandolo praticamente a memoria (comprese vele e pennacchi), come fosse un film che avevo sognato, come una visione cosmicocaleidoscopica; i giganti, le scene, i nudi della Sistina mi sono volteggiati attorno inflessibili e, ancora oggi, se chiudo gli occhi li sento come una presenza. Il secondo incontro con Michelangelo fu di fronte alle statue della Cappella medicea: intravidi nelle bianche e marmoree sculture dei riflessi cromatici, nonostante le pareti della Cappella fossero bianche. Vedo tutti i colori dello spettro solare in tutte le cose, perché la luce li contiene tutti. Da qui nacque il mio prismatismo sperimentato a Losanna, descritto dalla critica come una nuova scoperta, che poi riportai sul Sogno di Giacobbe e sui biblici mosaici dello Stendardo di Ur, memore della teoria descritta da Pitagora sulla geometria e sui riflessi cromatici dello spazio».

La tua monumentale Bibbia in 90 pannelli, che ricorda le biblioteche sumere e ittite, con mattoni e tavolette tutte uguali, come nasce?
«Nel 1980, dopo il successo di una mia personale alla Madison Gallery di Toronto, venni invitato a esporre le mie prime settanta tavolette su temi biblici, realizzate nel soggiorno oltreoceano, al Museo d’arte moderna dedicato a Henry Moore. Rientrato al MuSaBa, riportai le tavolette a 90 episodi per nove serie consecutive, fino a un totale di 900, presentati a Milano, Amsterdam, Londra, Monaco di Baviera. In quel tempo avvenne un incontro con un giovane professore calabrese, Umberto Moretti, docente dell’Università Gregoriana: questi ebbe l’impressione di scorgere nelle alte figure di Giacobbe una corrispondenza e affinità (oltre che con i nudi di Doré nelle scene del Diluvio universale e quelli di Michelangelo) con i Bronzi di Riace, scoperti nel mare ionico. Mi rivelò che un terzo guerriero consimile, detto di Todi, proveniente dalla Valle del Tevere, spicca nel Museo gregoriano etrusco del Vaticano. E che, mettendo tutti e tre i guerrieri in confronto alla statuaria di epoca mesopotamica, le opere dimostravano delle origini sumere, popolo da cui, secondo la Bibbia e l’archeologia, deriva la stirpe di Abramo. In una delle sue ultime visite, Moretti mi annunciò che, avendo i giorni contati, mi avrebbe donato la sua raccolta sui miti e storia mediterranea. Dopo due mesi ricevetti il dono e con mia grande sorpresa nei libri trovai segnati di suo pugno tutti i passaggi che conducevano non solo all’identificazione dei tre guerrieri, ma anche passaggi biblici trascritti nei più antichi testi cuneiformi sumero-semiti. Dopo tutto quanto appreso, iniziai sulle pareti esterne del chiostro della foresteria, con lo Stendardo di Ur, i miei monumentali mosaici biblici in progress (1.000 mq) a cominciare dalla civiltà sumera, patria di Abramo. Che anche le arti etrusche siano in corrispondenza con quelle sumere è accertato da vari studiosi circa le misure graduali e il portamento, le gambe lunghe, le spalle erette e larghe; così è per i tre guerrieri di Riace e del Vaticano. Dunque, in realtà è errato paragonarli alle arti elleniche».

Cos’è Hiske per Nik? Una compagna di vita, una musa? Di certo, qualcosa di più del mero «coniuge» delle pratiche legali. Forse, si avvicina al concetto biblico di «carne della tua carne» celebrato nel Cantico dei Cantici?
«Dopo una bionda principessa di un casato napoletano, ispiratrice dei miei giovanili lavori, subentra, appena approdato a Parigi, una bionda aristocratica russa; mi introdusse negli ambienti della città, ove strinsi amicizia con Le Corbusier, Picasso, Max Ernst, Cocteau e Sartre. Dopo un breve matrimonio con successivo divorzio, avviene l’incontro con la donna della mia vita: Hiske, appunto. La conobbi in occasione di una mia personale alla Galleria Cigaps, ove l’accademico di Francia Jean Cocteau staccò per sé una mia tela dalla parete sostituendola con un foglio di ringraziamento firmato. Il gesto non passò inosservato alla critica e alla stampa ed ebbi la fortuna di conquistare l’affascinante olandese, compagna d’arte e manager del nostro progetto di una vita. Assieme, nel 1966, aprimmo a Milano una galleria di successo e nel 1969 fondammo il MuSaBa, Tempio dell’arte, in Calabria, in questa storica vallata del Torbido, dove è testimoniato un insediamento della cultura villanoviana-etrusca».
La storia dell’arte ti vede protagonista per la tua continua ricerca e sperimentazione di materia e mezzi espressivi. Cosa pensi dell’arte religiosa? Comunica? Può creare amicizia e solidarietà? «L’innata spinta verso l’arte mi viene dalla primigenia cultura autoctona chiamata Italia, nata in questo estremo lembo del Sud: nome con cui andò poi designandosi il territorio fino Roma e tutta la penisola. La Valle del Torbido, ove sorge il MuSaBa, fu segnata dalla battaglia del Sagras, ove gli italo-locresi (non ancora Magna Grecia) sconfissero l’armata ateniese. Anche la natura tutt’intorno ha una sua fisionomia ricca di luce, colori, alberi; monti e torrenti si protendono verso il mare Ionio, allargandosi al Mediterraneo. Sicché, nato e vissuto in questo significativo luogo della nascente avanguardia culturale italo-mediterranea, come protagonista ed erede, sento il dovere di continuare l’indomito spirito ancestrale in senso globale. MuSaBa è soprattutto un laboratorio sperimentale vivo che si ispira alle botteghe rinascimentali, dove il maestro cercava i suoi collaboratori affinché lo aiutassero a realizzare i lavori e quindi gli allievi imparavano l’arte attraverso la pratica: confrontarsi, apprendere, produrre e vedere i risultati tangibili del proprio impegno formativo».

Antonio Tarzia


fonte: https://www.stpauls.it/jesus/1301je/cultura.htm









  


1 commento:

Giuseppe T. ha detto...

complimenti a nik... grazie al suo lavoro, il MuSaBa rappresenta una delle opere architettoniche piu importanti della calabria...

Posta un commento